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66. Il declino su Londra (l'altra versione)

La fine del mondo arrivò con un rumore leggero, come quando ti si chiude da sola la porta di casa e non hai più le chiavi. Nessuna esplosione, nessuna tromba biblica. Solo un vento tiepido che sapeva di plastica bruciata.“Mondo in esaurimento”, dicevano. Come se avessimo consumato tutto per sbaglio, lasciando le luci accese e l’acqua a scorrere.Era strano vedere la città così: palazzi come alveari sventrati, le insegne luminose che sfarfallavano come se stessero morendo anche loro.Ti ho trovata su un tetto che non sapevo esistesse. Ti tenevi le ginocchia al petto e guardavi i satelliti cadere uno dopo l’altro, come stelle cadenti.“Non pensavo che avrebbe fatto così poco rumore”, mi hai detto. E io ho pensato che avevi ragione: ci eravamo immaginati un finale epico, con boati e lampi e gente che grida.Ci siamo seduti vicini, condividendo una coperta che odorava di viaggio, di tutte le volte che avevamo dormito in stazioni semivuote per risparmiare due euro. Guardavamo la città spengersi a blocchi.“Pensi che sia davvero la fine?”.Non lo sapevo. Forse era solo un nuovo inizio con un nome sbagliato.Abbiamo iniziato a dirci tutto quello che non ci eravamo mai detti: le paure più piccole, i sogni volati fuori dal finestrino, le promesse trattenute per timidezza. E più parlavamo, più il cielo sembrava addolcirsi, come se anche lui avesse aspettato solo questo: che finalmente qualcuno si fermasse a guardarlo.Tu hai appoggiato la testa sulla mia spalla. Ho pensato che, se proprio doveva finire tutto, allora avevamo trovato il modo giusto: senza fughe spettacolari, senza eroi, solo due persone che si abbracciano.E forse è questo il segreto di ogni fine: non arriva per distruggere, ma per ricordarti cosa vale la pena tenere stretto mentre il resto crolla. Così siamo rimasti sul tetto, con il mondo che diventava sempre più scuro e le nostre mani sempre più intrecciate.Aspettando che accadesse l’ultima cosa.O la prima.

Dattero è quasi morto (ma anche voi eh), Evviva Dattero.